chioccolamenteIl progetto di rete Chioccolamente, sponsorizzato dalla sezione provinciale FIDC di Brescia per gli istituti comprensivi di Marcheno e Orzinuovi e l’Istituto  superiore Carlo Beretta di Gardone V.T, ha  previsto un modulo semestrale didattico in aula per trattare l’evoluzione  dell’arte venatoria dalla Preistoria fino alle espressioni  artistiche e poetiche del 1900, un convegno in cui hanno partecipato enti del territorio e l’azienda armiera Bettinsoli e infine un week – end formativo di chioccolo in data 27 – 8 maggio 2017 per i 15 vincitori provinciali della selezione effettuata. I due giorni di didattica trasferita presso il rifugio alpino di Campei de Sima, situato al centro dell’Alto Parco del Garda, hanno permesso agli alunni di diverse scuole del territorio bresciano, guidati dalla prof.ssa Silvia Luscia, dal maestro Loris dal Maistro e dal responsabile per la didattica FIDC Romano Bregoli, di apprendere l’arte del chioccolo, studiare la conformazione e la nidificazione degli uccelli silvani quali il merlo, il sassello e il tordo bottaccio, nonché  vivere diversi setting naturali quali LA RISERVA DEL NOCE, LA GROTTA DI STALAGMITE DEL BUS DE LUF e IL FAGGETO SECOLARE, il tutto in un aperto clima di socializzazione. L’esperienza ha permesso  di conoscere i diversi ambienti naturali che costituiscono i boschi bresciani dalla flora alla fauna, senza tralasciare le coltivazioni di minerali che l’area offre. Il Corso di Chioccolo principe della formazione del progetto si è  concluso con una gara tra i corsisti in cui gli alunni Digiglio Andrea e Micheli Andrea della classe 3 A ITIS si sono classificati rispettivamente secondo e terzo.

Guarda il video del progetto e la fotogallery:

È  possibile compilare online il questionario sulle attività di Cittadinanza e Costituzione dell'IIS C. Beretta, associato alla rete Unesco.

Clicca qui per il compilare il questionario per i genitori

Clicca qui per il compilare il questionario per gli studenti

Il 13 maggio 2017 la 3A ITIS  per il secondo anno consecutivo ha avuto una docente d’eccezione a trattare il tema della ricostruzione dell’Europa a 60 anni dalla stipula dei Trattati di Roma. La signora Mariana Sanga Pedercini, mamma di un alunno della classe, ha tenuto una lezione sull’integrazione europea che ha visto protagonisti i Paesi dell’Est Europa, dopo il crollo dei regimi comunisti nel 1989. Lo scorso anno l’argomento trattato per la Giornata della Memoria era legato  ai caratteri del regime di Ceausescu e quest’anno Mariana ha trasmesso ai ragazzi le difficoltà  della Romania a rialzarsi dalla povertà  del  regime e le tappe che stanno permettendo una piena integrazione culturale. Storia certo, ma anche tanta poesia quella delle canzoni di Adrian Paunescu che  sono state lette prima in lingua rumena da un alunno madrelingua e poi in traduzione dagli altri studenti, condividendo così con un linguaggio a loro vicino un passaggio istituzionale e culturale che solo i versi di alcune canzoni sanno rendere appieno. 

Questa è  solo la seconda tappa di un connubio scuola – famiglia che vuole accompagnare gli studenti, in un progetto di  programmazione più  ampio, a vivere consapevolmente nel 2019 il trentennio della caduta dei regimi dittatoriali comunisti in Europa, a saper valutare criticamente la storia anche attraverso la micro storia e la voce dei protagonisti.

Poche cose son rimaste civili

in quest’epoca piovosa e militare

non giorni, ma permessi di giorni

sugli attenti i bimbi escon dalle mamme.

Le pendole suonano come stivali

cigolando su sabbia arida e scartata

e in un mese ci son trenta guerre

e tutte portan la morte sulle ali.

Fascino non lo ha più nemmeno la morte

in quest’epoca colma di soldati

sotto i tigli in fiore si sta  come sotto le armi

quando da stelle siamo mitragliati.                                                                                              

(Adrian Paunescu)

Progetto classi parallele 2A e 2C1 ITIS: i luoghi poetici del bresciano da Catullo a D'Annunzio per la valorizzazione del patrimonio archeologico e culturale locale. Clicca sull'immagine per vedere il video.

foto di gruppo

I percorsi della memoria – Il sentiero Franco Moretti

Valorizzazione del patrimonio naturale e storico della Valle Trompia

 

L’Istituto Superiore “Carlo Beretta” di Gardone Val Trompia, la sezione ANPI di Gardone Val Trompia, in collaborazione con la sezione ANPI di Marcheno d'intesa con i Comuni di Marcheno e Gardone Val Trompia, con la Comunità Montana di Valle, ha realizzato il progetto, già presentato all’Ecomuseo di Val Trompia, di creazione del sentiero della Resistenza dedicato al giovane partigiano gardonese Franco Moretti, al quale sono intitolate due Scuole superiori della valle. Il progetto ha visto la collocazione sul percorso di alcuni pannelli illustrativi alcuni dei quali riportanti la mappa della zona tra Gardone - Marcheno e Tavernole s/M con in evidenza il sentiero Moretti. Gli studenti dell'Istituto “Carlo Beretta”, coordinati dalla prof.ssa Silvia Luscia  e dal prof. Vezzosi hanno predisposto i testi dei pannelli e definito la mappa del percorso. La definizione dei pannelli con la mappa è stata effettuata con la collaborazione di un tecnico della Società Ingenia, che ha curato la mappa dei sentieri della Media Valle Trompia (recentemente edita dalla C.M.). Il tecnico ha anche svolto, nella classe, una interessante lezione sulla costruzione delle mappe, sulla loro trasformazione in formato elettronico e sul modo di operare sul relativo file. La ricerca ha avuto come supporto base la pubblicazione “La scelta. Biografia del partigiano Franco Moretti” di Piergiorgio Bonetti e si è sviluppata durante l'anno scolastico 2016/2017 con uscite sul territorio, guidate da soci ANPI, interventi in classe, a cura di ricercatori di storia locale, e lettura di testi vari tra i quali la predilezione per il punto di vista fanciullesco ha portato alla condivisione con gli alunni dell’IC di Marcheno del romanzo “ Il sentiero dei nidi di ragno” di Italo Calvino e discussioni da parte della prof.ssa Silvia Luscia e del prof. Graziano Vezzosi.

Il percorso in sintesi:

Il sentiero partendo dal parcheggio dell'istituto comprensivo “Francesco Bertussi” di Marcheno sale ad Aleno, percorrendo parte della vecchia mulattiera giunge a Cesovo, con una deviazione per passare davanti al cippo che ricorda il patriota Cecco Bertussi. Dal centro di Cesovo si affronta la prima parte della ripida salita che conduce a Caregno. La si abbandona al primo bivio per dirigersi in piano verso la località Ronco. Subito dopo Ronco si giunge ad un bivio. A destra si prosegue per il roccolo dei tre piani (Località Ceret, distante circa 15 minuti) sede del distaccamento partigiano cui Franco Moretti apparteneva. Se invece al bivio si prende a sinistra, dopo 10 minuti si giunge alla cascina dove è posto il cippo che indica il luogo in cui Franco Moretti è stato ucciso. Poco distante è posta la targa collocata nel settembre 2014 dall'ANPI che riassume la vicende di Franco. Gli alunni delle classi terze della scuola secondaria di primo grado dell’IC Marcheno hanno realizzato in rete con gli studenti ITIS le statue che permanentemente completano il sentiero, ispirate ai pannelli storici. L'inaugurazione del sentiero è stata  Sabato 22 aprile 2017 con la partecipazione della classe II A ITIS che ha curato l’impianto della cartellonistica, degli alunni dell'Istituto comprensivo di Marcheno, dei rappresentanti degli enti locali, dei dirigenti scolastici e delle sezioni ANPI. Sabato 29 aprile le classi seconde dell' ITIS Carlo Beretta,  hanno poi percorso il sentiero accompagnati da rappresentanti ANPI, momento legato allo sviluppo delle competenze storico – sociali degli alunni al termine del primo biennio di studi e alla valorizzazione del territorio valligiano. Gli studenti della classe II A ITIS , sotto la guida della Prof.ssa Luscia e Prof. Vezzosi hanno inoltre predisposto un fascicolo che, illustrando nel dettaglio la vicenda di Franco Moretti, costituisce una indispensabile guida per comprendere meglio la vicenda, inquadrandola nel più complesso sviluppo della lotta di liberazione in Valle Trompia, nonché integrandola con interviste ai propri nonni che hanno vissuto la libertà conquistata dai partigiani.

pdf icon Articolo su Sentiero Moretti con fotografie

Tra Seconda Guerra mondiale ed esodo dalmata: memoria presente tra i nostri alunni. Quando la collaborazione scuola – famiglia fa lezione di Cittadinanza e memoria attiva

Mia Nonna è  nata il 27 marzo 1936 a Nimis (UD), un piccolo paese vicino al confine sloveno (Ex Jugoslavia).

L’apice della guerra arriva nel paese di mia nonna nel 1944. Dopo aver vissuto un periodo di difficoltà economiche dovute alla guerra stessa, scarsità di cibo, carenza di strutture pubbliche quali ospedali, scuole…  la guerra arriva in paese con l’occupazione da parte dei “cosacchi” per il controllo del territorio in sostituzione ai tedeschi.

Già  da due anni, una parte della popolazione italiana, iniziava ad organizzarsi diversamente da quella che era l’alleanza con la Germania. Con la formazione di bande partigiane vengono a formarsi le brigate Osoppo e Garibaldi, in queste organizzazioni si potevano arruolare uomini di tutte l’età, tra questi c’erano anche ragazzi molto giovani di 15 anni circa, come un cugino di mia nonna o come il papà  che aveva 44 anni.

I tedeschi, dopo i fatti dell’otto settembre, invadono l’Italia e per tenere il controllo di alcune zone del Friuli Venezia Giulia utilizzano i cosacchi. I tedeschi avevano promesso ai cosacchi che vincendo la guerra il Friuli sarebbe rimasta la loro terra in cui vivere. I cosacchi accettarono, in quanto essendo “zaristi” sarebbero stati eliminati dai russi se avessero fatto ritorno in patria e pertanto si erano rifugiati in Germania, la quale li aveva accolti e dato loro quest’ultimo compito di occupazione. I cosacchi avevano il compito di tenere il presidio nei paesi del Friuli ove erano presenti partigiani. Come ricorda mia nonna, i cosacchi vivevano in gruppi familiari e alloggiavano in carovane, erano mal armati dai tedeschi, con armi di scarto e spesso mal funzionanti, erano soliti saccheggiare le case per procurarsi cibo e quant’altro. Tra vari ricordi di mia nonna legati a quel periodo c’è  il posizionamento di un cannone di fronte a casa sua, utilizzato da dai mongoli, anche essi associati ai tedeschi, che sparava contro la Ex Jugoslavia di “Tito”. I bambini, compresa mia nonna, stavano a guardare la partenza delle cannonate fino a che i genitori non li richiamavano in casa. Un altro ricordo importante di mia nonna fu quando sua mamma e una zia mentre stendevano al sole la biancheria ed essendo la casa situata vicino ai boschi, i cosacchi pensarono che la stesura dei panni fosse segnalazioni ai partigiani. Per questo fatto furono messe alla fucilazioni, se non che un cosacco siccome più volte si era fatto fare da queste donne lavori di sartoria risparmiò loro la vita non facendole fucilare.

I partigiani vivevano tra i boschi, ed erano al corrente di come i cosacchi si comportavano in paese, di conseguenza decisero di unire le due fazioni (Garibaldi e Osoppo) per avere la forza militare di scacciarli. I partigiani riuscirono nell’impresa e i cosacchi furono costretti a scappare e abbandonare Nimis, Attimis e Faedis i tre paesi principali situati in confine con la Ex Jugoslavia e che per la loro vicinanza a colline e zone boschive favorivano lo stanziamento di partigiani in gran numero, perché qui riuscivano meglio a nascondersi. I tedeschi, molto ben organizzati militarmente, dopo avere inutilmente tentato di bloccare la ritirata dei cosacchi, immediatamente inviarono i rinforzi dal comando che era situato a Trieste. Nel giro di poco tempo arrivarono nei tre paesi. Evacuarono i paesi sopra citati, incolonnarono tutta la popolazione e all’uscita dei paesi furono selezionati i giovani, i maschi portati nei campi di concentramento, le donne nelle fabbriche tedesche per la costruzione di bombe, in quanto fabbriche pericolose utilizzavo i prigionieri. In un primo momento pensavano di deportare tutti in Germania nei campi di concentramento, in seguito decisero che la gente anziana e i giovanissimi, venissero liberati e detto loro di andarsene, allo stesso tempo vennero bruciati i paesi compresi stalle piene di animali e foraggi, dando la possibilità  alla gente di raccoglie oggetti personali che potessero essere trasportati autonomamente.

Nella deportazione in Germania nei campi di concentramento, mia nonna ricorda il proprio zio che morì poco dopo a “Dachau”. Una sola persona di Nimis si salvò dal campo di concentramento, si trattava di un giornalista che raccontò  poi in futuro queste vicissitudini. Durante il periodo nel quale i tedeschi erano stanziati nei tre paesi, la gente del posto come racconta mia nonna doveva andare in giro vagabondando per i paesi limitrofi, elemosinando e cercando alloggio e qualcosa da mangiare.

Di quel periodo mia nonna ricorda quando lei sola, in quanto le altre due sorelle erano ancora troppo piccole, e sua mamma, raggirarono il paese e i cosacchi presenti, per recarsi alla loro abitazione per vedere ciò che era rimasto dopo l’incendio. Trovarono la distruzione di tutte le abitazioni e vicino casa poterono vedere un cadavere semi sepolto di un omonimo del padre della famiglia in quanto era ricercato perché  faceva parte della brigata Osoppo. Il nonno fu in seguito preso in altri rastrellamenti, fu fatto prigioniero e messo alla fucilazione se non che un tedesco presente lo riconobbe come carceriere in un'altra occasione, e ricordando come fu trattato da prigioniere riuscì a liberarlo.

Questo stile di vita durò  all’incirca un anno, fino alla fine della guerra in aprile del 1945. Per quanto fosse finita la guerra i problemi nel Friuli non cessarono. La gente precedentemente evacuata iniziò il rientro nei paesi precedentemente bruciati. Iniziò la ricostruzione delle case civili. La Svizzera, in questa emergenza, fornì delle baracche per poter far vivere le persone il più  possibile vicino alle zone lavorative. I problemi rimasero per il confine con Tito, il quale, essendo vittorioso su di noi italiani, e avendo aiutato molto la zona del Friuli con i suoi partigiani per sconfiggere i tedeschi, pretendeva di portare il suo confine fino al fiume Tagliamento, ovvero gran parte del Friuli. Per quanto questo non accadde mai, la paura che accadesse in quegli anni era molta. Fin a che non si arrivò al 1954 con il trattato di “Osimo”, lo Stato per paura di dover concedere il territorio e le eventuali industrie, proibì lo sviluppo nel Friuli e così tolto case civili non si poteva costruire fabbriche per dar lavoro alla gente del posto. Molte persone non avendo lavoro furono costrette ad emigrare. Nella famiglia di mia nonna il primo ad emigrare fu il padre, dopo di che fecero lo stesso le tre figlie in ordine con il raggiungimento dei 18 anni, età  minima per essere accettati a lavorare in svizzera. Mia nonna e le due sue sorelle lavorarono in Svizzera in una fabbrica che produceva dei pezzi di automazione.

Per quanto le cose potessero andare bene la ricostruzione di questi tre paesi rasi al suolo dagli incendi fu fatta senza tener conto del fatto che si trovassero in zona sismica, e nel 1976 il Friuli fu duramente colpito dal terremoto e questi tre paesi furono nuovamente distrutti. Mia nonna si trovò  al di fuori di tutto ciò  perché da emigrata incontrò mio nonno, anche esso emigrato in svizzera per non dover lavorare in miniera. Nel corso degli anni si sposarono ed ebbero un figlio. Rientrarono in Italia visto che le prospettive di lavoro erano migliorate, intrapresero un’attività commerciale, gestirono una pensione a Collio Val Trompia paese di origine di mio nonno, zona che ai tempi era turistica per via del grosso successo di una stazione sciistica.

Edalini Marco 5B

27 gennaio. Un ricordo di liberazione, un ricordo di dolore.
27 gennaio 1945, nel campo di concentramento di Auschwitz si respira libertà  e speranza, ma gli occhi dei pochi sopravvissuti sono vuoti, un vuoto ricolmo di rabbia, dolore, rancore, sofferenza.

Sembrava un giorno come tanti, quel 27 gennaio 1945, l’ennesimo giorno di lavoro, di fatica, di morte, l’ennesimo tentativo di arrivare alla sera, l’ennesimo tentativo di non ascoltare l’assordante voce della coscienza che ti chiede urlando e piangendo se vale davvero la pena scegliere ogni giorno la sopravvivenza invece di una morte liberatoria. È  l’unico pensiero della giornata; il resto è  vuoto.
Del resto, un numero non dovrebbe pensare, dovrebbe solo lavorare, il lavoro rende liberi, Arbeit Macht Frei. Il massimo che potrebbe fare un numero è morire: di sete, di fame, di stanchezza, di dolore, di malattia, nelle camere a gas, fucilato, squartato. Ma non può permettersi di essere umano, un numero. Un numero non ci somiglia neanche, a un essere umano.

Poi una macchia scura all’orizzonte scombussola l’ordinario. Si avvicina sempre più. Un confuso silenzio. Da un’anima stanca e debole prorompe un urlo rauco: “Sono venuti a liberarci, siamo liberi, siamo liberi!”. Eccola, la speranza, una stilla di speranza in quella fiammata di morte.
Nel campo eravamo rimasti solo noi, i deboli, i malati. Gli altri se li sono portati via i nazisti. Probabilmente sono morti.
Le porte di Auschwitz si aprono, l’orrore si riversa nel mondo.
Come farete, ora, a guardarci negli occhi? Come pretendete di capire?
Siamo morti. Siamo morti perché eravamo ebrei. Eravamo innocenti, dottori, insegnanti, bambini, mogli, mariti, bibliotecari, umani, ma ebrei: la nostra unica colpa, la riposta sbagliata a una domanda ingiusta, ma dov’è, in fondo, la giustizia? Dov’è il bene? Cos’è il male?
Siamo sopravvissuti. Siamo sopravvissuti all’inferno. Come pensate che torneremo, ora, alla nostra vita di sempre? Non esiste più la nostra vita di sempre.
Arbeit Macht Frei.
Sono un numero. Sono solo. Non ho più nessuno. Sono tutti morti.
Sono tutti morti.

Dov’era il mondo, mentre milioni di ebrei venivano sterminati dalla follia? Dov’eravate, quando ci torturavano, quando ci squartavano, quando avremmo voluto solo vivere, quando avremmo voluto solo sentirci umani?
Un orrore commesso da un uomo, da una nazione, dall’umanità.
Un orrore che non può essere dimenticato, chi dimentica è complice. Un orrore che non possiamo permetterci di ripetere. “Vi comando queste parole, scolpitele nel vostro cuore”. Una richiesta, un dovere, un ordine impossibile da ignorare.

Almeno una volta all’anno, un giorno all’anno. Il 27 gennaio si ricorda. Il 27 gennaio si insegna. Un avvertimento al futuro. Parlate, informatevi, raccontate, leggete, descrivete, osservate, provate a mettervi nei loro panni e vivete con cuore puro e mente aperta. Vivete.

Nadiya Najim

In data 8 ottobre 2016 si è tenuto uno spettacolo teatrale per gli studenti dell'Istituto Beretta sulla violenza sulle donne, “Gelido prato”, finanziato dalla Civitas e messo in scena dall'associazione culturale Treatro – terrediconfine. Lo spettacolo era l'esito di un laboratorio della durata di quindici incontri, aperto a donne e uomini di maggiore età. Basato sul libro Ferite a morte di Serena Dandini, lo spettacolo ha toccato tutte le sfumature del tema “violenza sulle donne”, dalla violenza psicologica a quella fisica; un ammonimento rivolto soprattutto ai giovani, gli adulti di domani, un'esortazione – o meglio, la richiesta di aprire gli occhi su quella che è una realtà sempre attuale, una realtà che non sempre si ha il coraggio di rivelare, nonostante aleggi tra di noi come un fantasma letale, tra le mura di casa nostra e negli occhi vuoti di donne troppo spaventate per fidarsi della nostra società.

Uno spettacolo crudo e diretto, che rivela dati e avvenimenti reali con un sottile filo ironico necessario a far aprire gli occhi dallo sbigottimento e far correre brividi di inquietudine, ma con la leggerezza.

Lo spettacolo si apre con una sfilata di donne, tutte diverse fra loro tra età e aspetto fisico, intente a mostrare il loro lato migliore con sensualità e un po' di civetteria, sotto gli occhi scrutatori di due uomini che le valutano come merce in vendita. Una scena che descrive con tocco ironico come vengono viste le donne nella società odierna, giudicate superficialmente in base al loro aspetto fisico e alle loro capacità.

“Siamo donne. È il nostro destino. Non possiamo farci niente.” è il messaggio che emerge nelle scene successive. Senza lasciar il tempo allo spettatore di riprendere fiato vengono raccontati episodi di vergogna, dedizione, morte e amore da donne che non si capacitano della brutalità e della violenza degli uomini che hanno amato con passione e da cui sono state uccise. Padri, mariti, amanti, vicini di casa, tutti colpevoli di omicidio e omertà. Una rapida successione di parole e gesti che scombussolano e catturano lo sguardo dello spettatore, che diventa complice e partecipe.

Le donne non se lo aspettano. Forse se lo vanno a cercare, per come si vestono, per gli uomini che si trovano, perché non si ribellano. Non se lo aspettano, avviene tutto così all'improvviso, in un battito di ciglia, e l'uomo dolce e premuroso che le ha protette diventa l'incubo da cui fuggire. “Avevamo il mostro in casa e non ce ne siamo accorte!”. Decisioni sbagliate di uomini non del tutto consci delle loro azioni. Uomini che non sono né “buoni” né “cattivi”. Giusto, sbagliato, bene e male, sono solo preconcetti che illudono, ma non giustificano le nostre scelte, che spettano solamente a noi. Lacrime di rimorso versate sui corpi freddi di donne che hanno amato con dolcezza e fragilità, fredde confessioni di omicidio di uomini che con impassibilità hanno distrutto sogni e speranze. Le donne non se lo aspettano. Loro perdonano, si illudono, sperano. Sono disposte a sacrificare tutto per il loro uomo: la famiglia, gli amici, il lavoro, le passioni. Loro donano se stesse, chiedendo in cambio di essere amate. Tentano di mascherare la violenza, non si aspettano la morte. “Le donne sono forti, meno che con gli uomini.”

Ed è la loro dolce fragilità a raccontare le loro storie agghiaccianti, il loro amore e i loro sogni. E le loro parole arrivano a chi è disposto ad ascoltare con l'animo sensibile e il cuore aperto. “Fa che queste mie lacrime, questo pianto ti onori, questo vaso di latte, questa cesta di fiori, e il tuo corpo non sia, vivo o morto, che rose”.

La testimonianza di una delle attrici, Nadiya Najim:

Devastante. Sensuale. Forte. Bella. Agghiacciante. Dolce. Commovente.

Sono tanti gli aggettivi che potrei usare, ma questi sono quelli che meglio descrivono la mia esperienza di attrice nel “Gelido prato”, laboratorio teatrale sulla violenza sulle donne (seguito poi dall'esito che abbiamo replicato una decina di volte). Vivere questo progetto dall'interno è stato unico e indimenticabile, che ha lasciato un segno indelebile sulla mia formazione di giovane donna e attrice. Il nostro scopo era far aprire gli occhi a persone in grado di cambiare la nostra realtà, quella realtà che nasconde violenza fisica, sessuale e psicologica dietro a un sorriso rassicurante, occhi pieni di lacrime, fondotinta e cerotti. E quelle persone sono proprio i giovani. Non era necessario che capissero tutti: se anche un solo giovane avesse recepito il messaggio che volevamo trasmettere, ci saremmo sentiti soddisfatti, ma il risultato è stato di gran lunga meglio del previsto e noi non possiamo che gioirne. Avevamo l'arduo compito di raccontare storie di morte e violenza senza risultare vittime bisognose di aiuto e compassione; dovevamo parlare di ferite letali con leggerezza, dolcezza ed ironia, senza pressione, senza forzare. Dopotutto, è un argomento fragile, che ha bisogno di essere trattato con la dovuta delicatezza. E tra parole, poesie, danze, gesti, carezze, racconti, dati e petali di rose abbiamo raccontato di Marie, uccisa dal suo amante per gelosia; siamo state Teresa, che con la faccia viola di pugni raccontava sorridente di essere caduta dalle scale della cantinetta; eravamo Ivana, che attraverso la fredda confessione del suo fidanzato Giovanni ha espresso il suo disappunto per essere stata soffocata da un tovagliolo rosso a causa di una risposta non gradita; e in noi c'era quella giovane commessa di intimo strozzata con delle mutandine di pura seta perché le piaceva un po' di violenza a letto, le piaceva sentirsi un po' schiava e un po' geisha, ma il compagno non è riuscito a fermarsi; abbiamo parlato con la voce di Hamina, sgozzata dal padre perché voleva cambiare una storia già scritta e sposare un uomo diverso da quello a cui era destinata. Ma chi eravamo? Eravamo donne. Eravamo Vittoria, Elena, Alessia, Barbara, Nadia, Adriana, Rossana. Ognuna con le proprio passioni, con la propria vita e con i propri sogni, ma ci siamo prese il carico di denunciare una scomoda verità per un futuro meno inquietante. Per un mondo dove le donne possono vestirsi come piace a loro, senza esser poi incolpate di aver provocato il loro stupratore. Dove tutti possono dire la loro, senza aver paura di una risposta troppo violenta. Dove ognuno può essere se stesso senza essere giudicato. Un posto dove donne e uomini possono vivere sereni con i loro interessi, le loro passioni, i loro sogni e le loro ambizioni. Senza paura che l'amore della tua vita si riveli un mostro brutale e violento. E sarebbe più semplice se si potesse trovare il coraggio di denunciare una situazione di violenza senza avere il terrore di essere uccisi.

E se ognuno di noi si impegnasse a prendersi carico di questa cruda verità, forse questo non sarebbe più un mero sogno di poche persone fiduciose e speranzose, ma una realtà.

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Gli alunni della classe 2A sono stati coinvolti in un progetto per il raggiungimento di competenze ambientali di cittadinanza attiva. Hanno studiato la geologia, la storia, la sociologia, la botanica che hanno caratterizzato gli insediamenti nati lungo il fiume Mella. Un'indagine che si integra con le nuove infrastrutture che il Comune di Sarezzo ha creato proprio ul letto del fume. Perchè indagare l'ambiente che ci circonda ripercorrendone la sua storia, riscrivendo i documenti che lo vedono protagonista di sfruttamento e abusi? Perchè il presente si può comprendere solo leggendolo nelle righe del passato e attraverso linguaggi diversi: geografico, cartografico, scientifico e storico, per questo le prof.sse Fracassi, Di Gregorio, Luscia e il prof. Gobbi hanno seguito con esperti esterni i ragazzi in questa presa di consapevolezza per vivere il loro territorio.

referendumPer ricordare i 70 anni di scelta democratica al referendum del 1946 gli alunni delle classi terminali di ITIS - LICEO E IPSIA si sono fatti accompagnare da una lezione storica tenuta dalla sezione ANPI di Gardone V.T. nelle persone del prof. Ceretti e del prof. Bonetti. 

Perchè una giornata dedicata a questo tema con laboratori in aula e conferenze? Perchè i diritti non sono mai un dato acquisito, ma la meta di un cammino di cittadinanza attiva che i nostri studenti devono ripercorrere per essere votanti e cittadini attivi e consapevoli a loro volta. 

Segui su Campus i contributi a questa giornata